miércoles, 2 de noviembre de 2011

La parola e' desiderio - Héctor Alvarez Castillo


Traducción al italiano por Marcela Filippi Plaza


Ruote girano dietro altre ruote

e l'oscuro carro del giorno

avanza feroce sulla notte.

Le mie forti braccia non possono fare più nulla

c'é sempre un pretesto per non morire

e quando tutti gli alibi si sono esauriti

la mano smarrisce il nero pugnale della disgrazia.

I nostri volti sonnecchiano

sotto la luce del sole

e della luna.

Sbadigli di fumo e di alcol.

Rotolano il loro corpo sulla terra,

e sollevano a stento la polvere

che si attacca ai pori di questa carne.

Ci rilassiamo tra le braccia di allegre donne;

E' quello che siamo,

allegri ragazzi rilassati sulla pelle della vita,

e sorridiamo a quelle che passano vicino al nostro tavolo

Sorridiamo loro con mitezza,con pudore e con audacia.

Offriamo loro quanto abbiamo,

e il resto ,

il resto glielo neghiamo.

Di altro,nulla sappiamo.

Abituati al sogno

nessuno percepisce l'agonia.

Agitati,inutili,lasciamo che accada

ciò che non sappiamo evitare,

e poi riflettiamo sull'esistenza.

E parliamo dell'esistenza,

in ogni momento parliamo dell'esistenza

Il vivere è la nostra terra.

Si sparge la bava della lumaca al suo passaggio.

Calpestiamo quel sudiciume, sembra che ci deliziamo in esso.

E' una falsità che non dobbiamo concederci:

La nostra coscienza ci ordina che la nostra morale non stoni.

I nostri occhi sono avidi! Aprono le porte

e penetrano nelle alcove.

Bevono il calore dalle lenzuola degli amanti,

sfiorano nelle ombre la pelle che geme.

Sfiorano nelle ombre le stesse ombre,

e guardano il nostro stesso volto.

I nostri occhi sono avidi! Aprono le porte

e penetrano nelle alcove.

Una catena d'oro al tuo polso,

porta il nome di un altro corpo.

Ti occulti, ti schermisci. Mi temi?

Forse mi temi?

Stai tremando e il sogno

non ti permette di arrivare?

Prima di addentrarsi in quella terra

un contadino tace due parole.

Gli animali si agitavano questa mattina.

Una tormenta non riesce a nascondere

le sue vesti lamentose.

L'estate ha sparso acqua fresca,

e nell'acqua abbiamo visto eventi.

Saranno presagi?

La tua pelle è ciò che cerco.

Sei colei che andava silenziosa tra gli alberi,

inseguendo con gli occhi il volo degli uccelli.

Mi ami. Affoghi e ti tendo una mano per salvarti.

Hai baciato le mie dita,

ti sei abbandonata bagnata

sulla terra tagliente; sole e aria ti hanno asciugata

come una pietra nel deserto.

Non c'é più pericolo. Nelle notti

ti giri per dormire e, ho bisogno di te.

Corro nel bosco,salto sulle pozzanghere,

le rane saltellano spaventate;ci sono altre bestie.

Mi guardano,mi osservano

commentano allarmate che quell'uomo è pazzo,

che qualcosa lo ha perturbato,che una donna giace

nella sua anima, o è proprio un demone che lo agita

come succede all'albero abbandonato.

Grido e l'eco mi viene incontro

un'ombra senza vita cade inerte accanto a me.

Rido dinnanzi alla forza delle cose. Niente di più stolto.

Ciò che la corrente ha permesso di nascere

il mare lo conquide col suo fascino.

Il mondo procede alla pari

nella lotta e nell'avversità.

L'uomo costruisce la propria esistenza,

erige muri,costruisce città, altari

e colonne;coglie dalla terra l'alimento

e riposa tra libri accanto al fuoco

e al focolare.

Cuore nascosto ,non sussultare con violenza

per ciò che ieri hai disprezzato

nella tua dimora,

le celle sono serrate. Nemmeno un'ape

entra a depositare il suo miele. Dolce è il dono,

sacra la fede.

Per due parole la morte non osa,

e il carro oscuro del giorno

soggioga la furia animale! Campane,

campane nei miei orecchi.

Campane di una processione.

Come si è fatto tardi!

E non sei andato a dormire!

Questa notte non riposerai bene

e domani sarai estenuato.

Una tragedia,

una pena immensa,

enorme e potente. Campane,

campane nei miei orecchi,

campane di una processione.

La nostra marcia?

La nostra memoria che se ne va?

Quella volta in cui ho detto:

"E' bello e mi sta succedendo".

Frantumi di muri tormentano le mie spalle,

e le mie spalle ingannate procedono verso la stanza

delle disgrazie

torture ci sono nell'anima mia , sofferenze popolano la mente.

Chi morirà all'alba? Chi?

Giungono dal mare lettere di un marinaio

che non torna. La nave non arriva sulle coste,

va come un fantasma in mezzo alla tempesta e alle onde.

Non aspettavi nulla a quest'ora,ma

un angelo ha bussato alla porta.

Durante molte notti hai aspettato con le finestre aperte,

quanto tempo è trascorso da quelle ore!

Il presente più importante è sempre inaspettato.

Ora puoi avanzare verso il letto

puoi riposare fino all'alba,

fino a quando l'oscurità

pronunci le sue ultime parole.

Taci! La vita ogni giorno è diversa.

Chiudi gli occhi per non vedere la luce

e aprili all'improvviso, respira, scuoti la tua testa.

Febbre. La tua fronte vola e non è un uccello.

non è il cielo il tetto che gira

e neanche è il fazzoletto che ti calma. Il tuo spirito di legno ardente

si è infiammato. Rischio e vertigine, dove sei?

Dove riposi? Da dove vieni?

Le donzelle selvagge con i loro piedi

e le loro ali,sono state respinte dai cacciatori?

"Il cane non è un compagno fedele

è un ossequiente che osserva con gli occhi aperti".

Glielo dissi ed era vecchio. La sua traspirazione

aveva odore di Vodka e di grasso sulle mani.

I vecchi hanno cattivo odore, sanno di morte e di cera.

Tu sei l'assenza delle cose.

Sì lo so,oramai, non ci sono sorprese.E nonostante ciò invoco

e alzo la voce nella notte. Gli uomini si stupiscono

dei misteri. Non si sono lasciati dietro le caverne.

Hanno le proprie radici dentro le medesime. Di giorno

osservano le forme della terra e al tramonto

disegnano finché si addormentano. Poi sognano

fino a tardi. Cadono come legni nel fiume;

e la corrente li abbandona giù nelle acque.

E' primavera e le tartarughe sono tornate a mangiare,

divorano la carne che queste mani porgono.

Ritornano in questo vuoto senza sapere dove si trovano.

Credono in Dio più di noi.

Su una zattera

andrò a pesca di squali blù dagli occhi chiari,

e delle stelle. Una luce mi ha chiamato e obbedisco.

Il tracciato del cielo dice che partirò domani.

La tua bocca mi parla anche se dorme, non posso smettere di ascoltarti.

So che la conoscenza è l'unica illusione che custodisco.

Ma il clangore della vita

continua a spingere senza sosta. Il mio sangue

percepisce al di là delle azioni. un'orma,

un'altra orma.

E' la via del ghiaccio

che mi attende sempre. Nevica e i germogli

rimangono sepolti. Nevica e fa freddo,

un freddo gelido che fa male.

Sono spaventato perché non so se ti rivedrò.

Non so se continuare. Le gambe si muovono da sole.

Obbedisco e mi arrendo. Mi permetto di sopravvivere.

Le fondamenta della mia vita danno segni di cedimento.

Continuo lentamente. Un orso ha attraversato spaventato.

Ha visto il cadavere ed è fuggito verso il rifugio. Alci!

Ci sono alci nel bosco!

L'acqua si scioglie nel periodo dei fiori.

Con la primavera, la monotonia animale

fa ritorno al sangue .

Lei condividerà il letto.

La sua pelle inumidita scalderà le lenzuola,

distruggerà i ricordi,farà inaridire la memoria.



I segni delle cose si combinano come le cifre

sotto lo scudo dei nostri vecchi compagni,

lentamente,silenziosamente.

Lo sai che ti amo ancora?

Che ti amo come quel giorno! Quel giorno d'amore

così lontano come la partenza.



Mi hai parlato di tuo fratello malato.

Non sapevamo chi fosse l'altro;

guardavo una vecchia casa

e parlavamo, mentre aspettavamo che la vita trascorresse.

Confidavamo le nostre illusioni ai nostri sogni,

e i nostri sogni alle nostre illusioni.



La nave se ne va lontano e non ritorna verso le coste.

Una maledizione? Eleviamo altari, porgiamo offerte

al cielo. Qualcuno ascolta lassù?

C'è Dio da qualche parte?

Dov'è che non ascolta? Facciamo cose

aspettiamo che la vita passi. Facciamo.



Un giorno tu arriverai!

Starò con gli occhi aperti,

vedrò nascere l'alba e danzare il tuo corpo.

Arriverai ed io starò ad aspettare.



Conosco un luogo dove la strada sono i giacinti;

le fragole e le uve, gli alimenti. La tua bocca berrà liquori

e io morderò le tue labbra fino a farle sanguinare

e il sangue bagnerà le gengive.



Siamo andati a far visita all'amico ripudiato.

E' coperto da ampie coltri. Il caldo

non mette in fuga il terrore. Aspetta la morte

e non lo sa,lo presagisce.



Ti sei arrabbiata

e non so come consolarti. E' necessario un particolare tipo di luce

e di ombra

per rivelare il meglio che c'é in noi.



Il gatto zompa da un lato all'altro.

Non mi permette di correggere ciò che scrivo e tu partirai.

Metto a tacere una parola e poi la riscrivo.

Dì come il tuo corpo sfiorava il mio.

Dimmelo se lo sai! Lo ricordi? Lo desideri?

Mi sono addormentato e al mio risveglio

le tue gambe erano avviluppate alle mie:

no alla vita che facciamo per gli altri,

la nostra, la più intima,quella profonda

quella che strappa un urlo.



Amo i giacinti,

i coralli e il colore rosso, il cielo

quando cresce in alto come un sole.



Non posso.

Un treno abbandona il suo percorso in lontananza.

Sono rimasto ad attenderlo per giorni e se n'é andato.

Non ho mosso nemmeno un braccio per fermarlo,

non ho fischiettato la sua canzone mentre passava

scuotendo la piattaforma e l'acciaio andato in rovina.



Non ti sei mai addormentato dopo aver ascoltato

parole che non ti interessano,dialoghi che

dimentichi immantinente? Non fingere. Non essere sciocca.

Nessuno ti sente e ti osserva più di me e il mio volto.

La terra dalla quale provieni sprofonda sotto i miei passi.



Mi sono immerso nel mare per trovare le tue perle:bianche e uniche,

nelle mie mani si sono aperte alle tue mani.



Il possesso di quel volto di luce

era come impadronirsi del mondo.



Pace. La pace è la mia aspirazione,

ma la parola è un desiderio

che vìola ogni limite.



Quanto tempo che non parli con un essere vivente!

Quante lune, quanto mare ha bagnato le spiagge

spogliando la sabbia di quei nomi

scolpiti!

Per quanti giorni

la tua barca ha urtato le coste

e nessuno ha avvertito il presagio né ha agitato un saluto!

Un altro mare,un altro urlo,un altro inferno.



L'ultima volta che hai pronunciato una parola

lo hai fatto per la donna. Una notte è sufficiente per capire

cos'é l'amore.

domingo, 14 de agosto de 2011

Borges entre señoras - Mario Vargas Llosa


PIEDRA DE TOQUE. El escritor argentino colaboró en los años treinta con una revista femenina bonaerense, El Hogar, con magníficas críticas literarias. Tusquets publicó en 1986 una antología soberbia

Entre 1936 y 1939 Borges tuvo a su cargo la sección de libros y autores extranjeros de El Hogar, un semanario bonaerense dedicado principalmente a las amas de casa y la familia. Emir Rodríguez Monegal y Enrique Sacerio-Garí reunieron una amplia antología de estos textos que publicó Tusquets en 1986 con el título Textos cautivos. Ensayos y reseñas en 'El Hogar' (1936-1939).

No conocía este libro y acabo de leerlo, en Mallorca, donde Borges, en cierto modo, hizo su vela de armas literaria poco después de terminar sus estudios escolares, en Ginebra. Aquí escribió versos vanguardistas, firmó manifiestos, se vinculó a un grupo de poetas y escritores jóvenes de la isla, en una actividad intelectual intensa pero que poco dejaba adivinar de la trayectoria que tomaría su obra posterior. No sé por qué me había hecho la idea de que sus notas y artículos en El Hogar, serían, como aquellos escritos mallorquines de su juventud, testimonios de una prehistoria literaria sin mayor vuelo, meros antecedentes de la futura obra genial.

Me llevé una gran sorpresa. Son mucho más que eso. No sé si la selección, que parece haber sido hecha sobre todo por Sacerio-Garí -el libro apareció cuando Rodríguez Monegal había fallecido-, eliminó todos los textos de mera circunstancia y poca significación, pero la verdad es que esta antología es soberbia. Revela a un escritor dueño de un estilo cuajado y propio, enormemente culto, con un punto de vista que le permite opinar sobre poesía, novela, filosofía, historia, religión, autores clásicos y modernos y libros escritos en diversos idiomas, con absoluta desenvoltura y, a menudo, notable originalidad. Un colaborador que semanalmente comentara la actualidad literaria mundial con la lucidez, el rigor, la información y la elegancia con que lo hacía Borges en El Hogar, hubiera dado un gran prestigio a las más exigentes publicaciones intelectuales de los considerados entonces los ejes culturales de la época, como París, Londres y Nueva York. Que estos textos aparecieran en una revista porteña dedicada a las amas de casa dice mucho sobre la probidad con que su autor encaraba su vocación, y, también, desde luego, sobre los altos niveles culturales que lucía la Argentina de aquellos años.

Una de las rarezas de estos textos es que Borges se ha leído de principio a fin los textos que reseña, se trate de la voluminosa traducción de Las mil y una noches de sir Richard Burton, los ensayos sobre la mitología primitiva de sir James George Frazer o las novelas de Faulkner, Heming-way, Huxley, Wells y Virginia Wolf. Todo lo analiza y comenta con la seguridad que solo confiere el conocimiento. Cuando la oscuridad del libro es más fuerte que él, como le ocurre con el Finnegans Wake de James Joyce, lo confiesa y explica las posibles razones de su fracaso de lector. No hay uno solo de estos comentarios que dé la impresión de haber sido elaborado de cualquier manera, para cumplir, sin dar mayor importancia a un trabajo que sabía pasajero, superficial y olvidable. Nada de eso. Incluso las pequeñas notitas de pocas frases que aparecían a veces al pie de su página bajo el rubro De la vida literaria son una delicia de leer, por su ironía, su gracia y su inteligencia.

En los años en que colabora en El Hogar Borges publica ya un libro importante, Historia universal de la infamia, pero todavía no ha escrito ninguno de sus grandes cuentos, poemas o ensayos a los que deberá luego su fama. Sin embargo, ya había en él un talento fuera de lo común para leer y opinar sobre lo que leía, y una visión del mundo, de la cultura, la condición humana, del arte de inventar ficciones y de escribirlas que dan a todos estos textos un denominador común, de partes de un todo compacto. Lo primero que resalta en ellos es la curiosidad universal que guía sus lecturas, la de un lector que es ciudadano del mundo, pues se mueve con la misma soltura leyendo a Paul Valéry en francés, a Benedetto Croce en italiano, a Alfred Döblin en alemán y a T. S. Eliot en inglés. Y, lo segundo, la claridad y la fuerza persuasiva de una prosa donde hay casi tantas ideas como palabras y un esfuerzo permanente para no decir nada que no sea absolutamente indispensable respecto a lo que se propone decir. Cuentan que Raimundo Lida, en sus clases de Harvard, recordaba siempre a sus alumnos: "Los adjetivos se han hecho para no usarlos". Borges es famoso por sus adverbios y adjetivos ("Nadie lo vio desembarcar en la unánime noche"), pero, justamente, lo es porque nunca abusa de ellos, porque estallan de pronto en sus frases como una aparición insólita y espectacular, que redondea una idea, abre una inesperada dimensión a la anécdota, trastorna y desbarajusta lo que hasta entonces parecía la dirección de un argumento. La riqueza de estas reseñas, comentarios o microbiografías está en la precisión y concisión con que fueron escritas: nunca parece faltar ni sobrar nada en ellas, todas gozan de aquella autosuficiencia que tienen los buenos poemas y las mejores novelas.

A veces, un párrafo de pocas frases le basta a Borges para resumir el juicio que le merece toda la vasta obra de un autor, como Samuel Taylor Coleridge: "Más de 500 apretadas páginas llenan su obra poética; de ese fárrago solo es perdurable (pero gloriosamente) el casi milagroso Ancient Mariner. Lo demás es intratable, ilegible. Algo similar acontece con los muchos volúmenes de su prosa. Forman un caos de intuiciones geniales, de platitudes, de sofismas, de moralidades ingenuas, de inepcias y de plagios". La opinión es muy severa y acaso injusta. Pero, no hay duda, quien la formula de ese modo sabe lo que dice y por qué lo dice.

A veces, en los perfiles biográficos, hay verdaderas maravillas descriptivas, como este boceto físico del historiador Lytton Strachey: "Era alto, demacrado, casi abstracto, con el fino rostro emboscado detrás de los atentos anteojos y de la rojiza barba rabínica. Para mayor recato, era afónico". No es raro que un elogio vaya acompañado de un mandoble letal, como en esta frase en la que, luego de alabar dos novelas de Lion Feuchtwanger -El judío Süss y La duquesa fea- añade: "Son novelas históricas, pero nada tienen que ver con el laborioso arcaísmo y con el opresivo bric-à-brac que hace intolerable ese género".

No hay en el Borges que escribe estos sueltos y artículos la menor concesión hacia el público de una revista que no era ni especializado en literatura ni, en su gran mayoría, lo suficientemente culto como para poder apreciar en todo su valor las opiniones y elogios o admoniciones de que estaban impregnados sus artículos. Escribe como si se dirigiera a los más exquisitos y refinados lectores de la tierra, dando por supuesto que todos lo entenderían y aprobarían o desaprobarían sus juicios de igual a igual. Y, pese a ello, no hay en estas páginas arrogancia ni pedantería, esos desplantes detrás de los cuales se disimulan casi siempre la ignorancia y la vanidad. Son textos en los que, a pesar de su brevedad, el autor se juega a fondo, desnudándose de cuerpo entero, mostrando sus manías, fobias, filias, anhelos íntimos. Los autores que frecuentará toda su vida con admiración y lealtad desfilan por sus páginas, Schopenhauer, Chesterton, Stevenson, Kipling, Poe, los cuentos de Las mil y una noches, así como su debilidad por el género policial, a muchos de cuyos cultores, Chesterton, Ellery Queen, Dorothy L. Sayers y Georges Simenon, dedica artículos. Temas recurrentes de sus ficciones y ensayos, como el tiempo y la eternidad, asoman en las observaciones que consagra a la obra de teatro de J. B. Priestley El tiempo y los Conways y a Un experimento con el tiempo de J. W. Dunne, a quien dedicaría también en otra ocasión un largo ensayo. Y, por supuesto, la fascinación que ejerció siempre sobre él la literatura oriental está presente en los comentarios a libros chinos como Historia de la orilla del agua, una antología de cuentos fantásticos y folclóricos de ese país hecha por Wolfram Eberhard y la japonesa The Tale of Genji de Murasaki Shikibu.

Textos cautivos constituye un magnífico panorama de lo que era la actualidad literaria de fines de los años treinta en el mundo occidental, época de una fulgurante creatividad en todos los géneros, la de Eliot, Joyce, Breton, Faulkner, Wolf, Mann, en la que la experimentación formal, la revisión del pasado reciente y clásico, las polémicas sociopolíticas y culturales trazaban una frontera entre dos épocas. Es fascinante que acaso nadie dejara un testimonio más agudo y sutil de toda la efervescencia de ideas, formas y creaciones literarias de aquellos años, que un (todavía) oscuro escribidor de los confines del mundo, en la página semanal que llenaba en una revista de amenidades concebida para hacer más llevadera la rutina de las amas de casa.

© Derechos mundiales de prensa en todas las lenguas reservados a Ediciones EL PAÍS, SL, 2011. © Mario Vargas Llosa, 2011.
Publicado edición impresa domingo 14 de agosto de 2011

domingo, 7 de agosto de 2011

La palabra es deseo - Héctor Alvarez Castillo




La palabra es deseo


“La carne es triste, ¡ay de mí!,
He leído todos los libros.”


Stéphane Mallarmé







Ruedas giran tras otras ruedas
Y el negro carro del día
Avanza feroz sobre la noche.
Mis fuertes brazos ya no pueden hacer nada.

Siempre hay una excusa para no morir,
Y cuando se pierden todas las excusas
La mano extravía el negro puñal de la desgracia.

Nuestros rostros dormitan
A la luz del sol
Y de la luna.
Bostezan en humo y alcohol.
Revuelcan su cuerpo en la tierra,
Y apenas sacuden el polvo
Que se adhiere a los poros de esta carne.

Nos relajamos en brazos de alegres mujeres;
Eso somos,
Alegres muchachos relajados en la piel de la vida,
Y sonreímos a las que pasan cerca de nuestra mesa.
Les sonreímos con tibieza, con pudor, con osadía.
Las convidamos con lo que tenemos,
Y lo otro, lo otro se lo negamos.
De lo otro, nada sabemos.

Habituados al sueño
Nadie percibe la agonía.
Agitados, inútiles, dejamos que suceda
Lo que no sabemos evitar,
Y luego reflexionamos sobre el vivir.
Y hablamos sobre el vivir,
Hablamos todo el tiempo sobre el vivir,
El vivir es nuestra tierra.

Se derrama la baba del caracol con su paso.
Pisamos esa mugre, parece que nos deleitáramos en eso.
Es una falsedad que no debemos permitirnos:
Nuestra conciencia nos ordena que no desafine nuestra moral.

¡Nuestros ojos son ávidos! Abren las puertas
Y penetran en las alcobas.
Beben el calor en las sábanas de los amantes,
Lamen en las sombras la piel que gime.
Lamen en las sombras las mismas sombras,
Y miran hacia nuestro rostro.

¡Nuestros ojos son ávidos! Abren las puertas
Y penetran en las alcobas.

Una cadena de oro en tu muñeca,
Lleva el nombre de otro cuerpo.
Te ocultas, te escondes, ¿me temes?
¿Acaso me temes?
¿Estás tiritando y el sueño
No te deja llegar?

Antes de penetrar en esa tierra
Un campesino calló dos palabras.

Los animales dieron señales esta mañana.
Una tormenta no puede esconder
Sus quejosos vestidos.
El verano esparció agua fresca,
Y en el agua vimos sucesos.
¿Serán augurios?
Tu piel es lo que busco.

Eras quien andaba silenciosa entre los árboles,
Persiguiendo con los ojos el vuelo de las aves.

Me amas. Te ahogas y tendí una mano para salvarte.
Besaste mis dedos, te abandonabas mojada
Sobre la tierra hiriente; sol y aire te secaron
Como a una piedra en el desierto.

Ya no hay peligro. Por las noches
Te das vuelta para dormir, y te necesito.

Corro por el bosque, salto por los charcos,
Las ranas brincan asustadas; hay otras bestias.
Me miran, me observan.
Comentan alarmadas que ese hombre está loco,
Que algo lo ha perturbado, que una mujer yace
En su alma, o es el mismo demonio quien lo agita
Como a un árbol abandonado.

Grito y el eco viene a mi encuentro,
Una sombra sin vida cae inerte a mi lado.
Río ante la fuerza de las cosas. Nada más tonto.
Lo que la corriente ha dejado nacer
El mar vence con su avenencia.

Marcha el mundo a la par
De la lucha y la adversidad.
El hombre construye su existencia,
Levanta paredes, edifica ciudades, altares
Y columnas; toma de la tierra el alimento
Y descansa entre libros, junto al fuego
Y la hoguera.

¡Amparado corazón, no palpites con violencia
Por lo que ayer has despreciado!
En tu casa
Se han clausurado las celdas. Ni una abeja
Entra a dejar su miel. Dulce es el regalo,
Sagrada la fe.

Por dos palabras la muerte no se atreve,
Y el carro negro del día
Vence la furia animal. Campanas,
Campanas en mis oídos.
Campanas de una procesión.
¡Qué tarde se ha hecho!
¡Cómo no te has retirado a dormir!
No vas a descansar bien esta noche,
Y mañana estarás extenuado.

Una tragedia,
Una pena enorme,
Grande y poderosa. Campanas,
Campanas en mis oídos,
Campanas de una procesión.
¿Nuestra marcha?
¿Nuestra memoria que parte?
Aquella vez cuando dije:
“Es bueno y me está sucediendo”.

Escombros de murallas fastidian mis hombros,
Y mis espaldas van engañadas hacia el cuarto
De las desgracias
Torturas hay en mi alma, torturas pueblan la mente.
¿Quién morirá esta madrugada? ¿Quién?

Llegan desde el mar cartas de un marino
Que no vuelve. El barco no llega a las costas,
Va fantasma entre la tempestad y las olas.

No esperabas nada a esta hora, pero
Golpeó a la puerta un ángel.

Muchas noches aguardabas con ventanas abiertas,
¡Cuánto tiempo pasó desde aquellas horas!
El mayor presente siempre es inesperado.
Ahora puedes avanzar hacia ese lecho,
Puedes descansar hasta el alba,
Hasta que la oscuridad
Pronuncie sus últimas palabras.
¡Calla! La vida es distinta cada día.
Cierra los ojos para no ver la luz
Y ábrelos de repente, respira, sacude tu cabeza.

Fiebre. Tu frente vuela y no es un pájaro.
No es el cielo el techo que gira
Y el pañuelo que te calma. Se inflamó tu espíritu
De madera ardiente. Riesgo y vértigo, ¿dónde estás?
¿Dónde reposas? ¿De dónde eres?
Las doncellas salvajes, con sus pies
Y sus alas, ¿han sido negadas a los cazadores?

“El perro no es un compañero fiel,
Es un obsecuente mirar con los ojos abiertos.”
Se lo dije y era viejo. Su transpiración
Tenía olor a vodka y a grasa en las manos.
Los viejos huelen feo, huelen a muerte y a cera.

Tú eres la ausencia de las cosas.
Si lo sé, ya no hay sorpresas. Pero aún así invoco
Y alzo la voz en la noche. Los hombres se asombran
Con los misterios. No han dejado atrás sus cavernas.
Tienen sus raíces dentro de ellas. En el día
Observan las formas de la tierra y en el atardecer
Dibujan hasta dormirse. Luego sueñan
Hasta tarde. Caen como madera al río;
Aguas abajo los deja la corriente.

Es primavera, las tortugas han vuelto a comer,
Devoran la carne que le ofrecen estas manos.
Regresan a este vacío sin saber dónde están.
Confían en Dios más que nosotros.
En una balsa
Iré a pescar tiburones azules, con los ojos claros
Y las estrellas. Una luz me ha llamado y obedezco.
El trazado del cielo dice que partiré mañana.

Tu boca me habla aunque duerma, no puedo dejar de oírte.
Sé que el conocimiento es la única ilusión que guardo.
Pero el bullicio de la vida
Sigue pujando, sin descanso. Mi sangre oye
Por encima de los actos. Una huella,
Otra huella.
El camino del hielo
Es el que siempre me espera. Nieva y los brotes
Van sepultándose. Nieva y hace frío,
Un frío helado que lastima.
Estoy asustado porque no sé si te volveré a ver.
No sé si continuar. Las piernas andan solas.
Obedezco y me rindo. Me dejo sobrevivir.
Crujen las maderas de mi vida.
Sigo lentamente. Un oso cruzó espantado.
Vio el cadáver y huyó hacia el refugio. ¡Alces!
¡Hay alces en el bosque!

El agua se derrite en la estación de las flores.
Con la primavera la monotonía animal
Regresa a la sangre.

Ella compartirá la cama.
Con su piel humedecida calentará las sábanas,
Deshacerá los recuerdos, secará la memoria.

Signos de las cosas se engarzan como cifras
En el caparazón de nuestros antiguos compañeros,
Despacio, sigilosamente.
¿Sabes que aún te quiero?
¡Qué te quiero como aquel día! Aquel día de amor
Tan lejano como la partida.

Me hablaste de tu hermano enfermo.
No sabíamos quien era el otro;
Miraba una casa vieja
Y decíamos, mientras esperábamos que la vida pase.
Confiábamos nuestras ilusiones a nuestros sueños,
Y nuestros sueños a nuestras ilusiones.

Va el barco lejos y no regresa a las costas.
¿Una maldición? Alzamos altares, elevamos ofrendas
Al cielo. ¿Alguien escucha allá arriba?
¿Está Dios en alguna parte?
¿Dónde estás que no oyes? Hacemos cosas
Esperando que la vida pase. Hacemos.

¡Tú vas a llegar algún día!
Estaré con los ojos abiertos,
Veré el amanecer y tu cuerpo danzar.
Vas a llegar y estaré aguardando.

Conozco un lugar donde los jacintos son el camino;
Las fresas y las uvas,
Los alimentos. Licores beberá tu boca.
Y morderé tus labios hasta sangrar
Y la sangre bañará las encías.

Fuimos a visitar al amigo despreciado.
Está protegido por largas mantas. El calor
No ahuyenta el terror. Espera la muerte
Y no lo sabe, lo presiente.

Te has enojado
Y no sé como consolarte. Se necesita cierta sombra
Y cierta luz
Para confiar lo mejor que hay en nosotros.

El gato salta de un lado al otro.
No deja corregir lo que escribo y partirás.
Tacho una palabra y vuelvo a escribirla.
Di cómo rozaba tu cuerpo al mío.
¡Dímelo si lo sabes! ¿Lo recuerdas? ¿Lo deseas?
Me quedé dormido y al despertar
Tus piernas se atraparon entre las mías:
No la vida que hacemos para los demás,
La nuestra, la más íntima, la profunda.
La que desgarra como un alarido.

Amo los jacintos,
Los corales y el color rojo, el cielo
Cuando crece en lo alto como un sol.

No puedo.
Un tren deja las vías a distancia.
Lo he estado esperando durante días y se ha ido.
No moví un brazo para detenerlo,
No silbé su canción cuando pasaba
Y sacudía la plataforma y los hierros derruidos.

¿Nunca te has dormido después de oír
Palabras que no te importan, diálogos que
Olvidas al instante? No finjas. No seas tonta.
Nadie te oye ni te mira más que mi voz y mi rostro.
La tierra de la que tú vienes se hunde a mi paso.

Me sumergí en el mar para hallar tus perlas:
Blancas y únicas,
En mis manos se abrieron a tus manos.

La posesión de ese rostro de luz
Era adueñarse del mundo.

Paz. Paz es mi anhelo,
Pero la palabra es un deseo
Que transgrede todo límite.

¡Cuánto hace que no hablas con un ser vivo!
¡Cuántas lunas, cuánto mar bañó las playas
Y despojó a la arena de los nombres
Grabados!
¡Cuántos días
Tu barca golpeó las costas
Y nadie vio el presagio ni agitó el saludo!
Otro mar otro grito otro infierno.

La última vez que dijiste una palabra
Fue a la mujer. Una noche alcanza para saber
Qué es el amor.


Buenos Aires, 1991


Este extenso poema da nombre al libro que ha obtenido en este año el Premio de Poesía "Alejandro G. Roemmers", que otorga la Fundación "Victoria Ocampo"

sábado, 30 de julio de 2011

Un Mundo tan frágil y defectuoso - Pablo Martínez Burkett




Un Mundo tan frágil y defectuoso

–¡Qué tontería! –exclamó Lady Windermere–.
¡En mi vida he oído un disparate semejante!
OSCAR WILDE, El crimen de Lord Arthur Saville



SI ALGUIEN SE regía con minucioso desvelo por las buenas man¬eras victorianas, ésa era la señorita Iphigenia Smith-Burnett. De modos reposados, ejercía la gentileza con elaborado refinamiento, desplegando un repertorio de palabras amables y cuidadas. No recuerdo haberla oído levantar la voz ni siquiera para llamar a un taxi. Con devoción malsana, agotaba una y otra vez las páginas de A Guide to the Manners, Etiquette and Deportment of the Most Refined Society, para luego escrutar el universo y sonreír satisfecha al caballero que agradecía copiosamente a quien le franqueaba el paso o ignorar espantada a aquel que tuviera el mal gusto de introducir comentarios sobre política, religión u otra cuestión igualmente penosa. Toda conducta que constituyera un grave apartamiento de las reglas, le hacía fruncir el entrecejo. Abominaba de cualquier manifestación de afecto en público. Imagino que tampoco las toleraba en privado. Nunca sabremos qué era preferible, si la corrosiva acritud de sus comentarios o sus largos silencios reprobatorios. Sin embargo, siempre dispuesta, acudía inconsulta en auxilio del desamparado. Tanta bondad hacía más tolerable cierto gusto por los chismes y habladurías y un innegable desdén por todos los que no fuéramos súbditos de Su Serena Majestad.
De una singular altura y cuello finísimo, poseía una piel inmaculadamente blanca. No era bonita, pero en un rostro enmarcado por el preceptivo rodete se destacaba la profundidad de sus ojos grises. Aunque declaraba haber recibido numerosas ofertas matrimoniales, la sucesión de negativas a la espera del candi¬dato apropiado la encontró un día acostumbrándose al baldón de “señorita soltera”. Nacer en algún lugar de las Islas Británicas, o aun, en cualquiera de las posesiones ultramarinas del Imperio, hubiera sido su natural destino, pero vio la luz en la República Argentina a poco de instalarse la joven pareja Smith-Burnett en el chalet que correspondía al ingeniero mayor del Ferrocarril del Sud. Su madre, Margaret Hart, originaria de Hampshire, falleció a poco de nacer su primogénita. Su padre, Paul D. Smith-Burnett, natural de Staffordshire, resolvió la orfandad de su pequeña hija internándola pupila con las monjas irlandesas. La muerte del autor de sus días la obligó a aceptar un puesto de maestra en el Holy Trinity Church College, donde recobró la fe anglicana. Un poco por tradición y otro poco por inercia, mantuvo el luto más allá del tiempo que un prudente respeto por la memoria de los faithful departed aconsejaba. Cuando la conocí, vivía en el mismo solar que heredara de sus mayores, en el Barrio Inglés de Temperley, localidad que por entonces integraba el llamado “segundo cinturón urbano” al sur de Buenos Aires. Con orgulloso esmero, había logrado que una hiedra prácticamente cubriera todo el frente de la casita, a la que se accedía por un jardín de tapias bajas. De acuerdo con los numerosos catálogos que consul¬taba, el interior era un muestrario de pesados cortinados, adornos acumulados hasta la depravación y paredes empapeladas con exasperantes motivos florales, cuyo exceso no era suficiente para evitar que las tapizara con platos decorativos. Una tía le dejó, por toda herencia, un par de dioramas originales de Mr. Potter, que exhibía con fingida afectación. El censo poblacional de la casa se agotaba en un gato siamés, llamado Cheshire, y la empleada doméstica, una criolla de nombre Juanita (los primeros días en servicio, a la desdichada mujer le costó entender que los aireados “¡Jane! ¡Jane!” de “Lady” Iphigenia eran para ella. El retintín de la campanilla la persuadió de su error).
Sus jornadas se sucedían idénticas y la más mínima alteración de la rutina le provocaba un severo desarreglo nervioso. A las 8 en punto, Jane le traía un desayuno ligero. A las 8:20 la ayudaba a vestirse. Por nada del mundo era capaz de emerger de su cuarto sin encontrarse vestida apropiadamente. Entonces desayunaba de forma completa, mientras leía el Buenos Aires Herald. Después se discutían las cuestiones domésticas y, si no tenía que salir, se dedicaba con empeño a sus gardenias, narcisos y jacintos, flores que le habían valido algunos premios. Si el día no acompañaba, se quedaba hasta la hora del almuerzo observando su álbum de estampillas o su colección de mariposas disecadas. Además, llevaba un diario íntimo a cuya compulsa debemos la historia que compendiamos. Dormía una mínima siesta y después se entregaba a la lectura, sus labores, jugar al bridge o tomar el té con sus amigas, mayormente hijas o esposas de funcionarios del ferrocarril, contadores del frigorífico, agentes de la compañía de aguas corrientes o médicos del Hospital Británico.
Con cierta regularidad, se costeaba hasta el centro junto con su inseparable compañera Allison Lambkert, para dedicarle el día entero a hacer compras en Gath & Chaves o en Harrods’s, que era donde se proveía de forma excluyente, salvo la música, que la adquiría invariablemente en Casa Piscitelli. A menudo se la podía ver merodeando por allí a la caza de otra versión del Konzert in A– Dur KV 622 für Klarinette und Orchester de Wolfang Amadeus Mozart, pues aunque tenía unas 35 interpretaciones, disfrutaba grandemente de pasar en el combinado el adagio a repetición. Cultivaba la curiosa teoría de que, cada vez que esa composición sonaba, el querido Dios se apartaba por un instante de la Creación y, sentado sobre una nube, dirigía la orquesta y se felicitaba por el Hombre.
Pocas cosas le agradaban más que convidar a sus amistades y relaciones a un té y pocas cosas le causaban mayor grado de excitación. Por supuesto, una excitación muy a la inglesa. Ya el sólo hecho de escribir las invitaciones le provocaba un regocijo infantil. Planear el menú y seleccionar los manteles de fino encaje para lavarlos y almidonarlos le amplificaba el frenesí. Unos días antes, caía en trance y, mientras ayudaba a Jane a pulir la platería, se debatía entre exhumar el juego de porcelana Wedgewood o el Royal Worcester. Carcomida por la duda, se iba a la feria a comprar lo necesario. Llegada la fecha, directamente la asaltaba un estado rayano con el paroxismo. Una y otra vez, revisaba el correcto aliño de tazas y platos, azucareras, lecheritas, servilletas, cubertería y demás enseres. Inquieta, hacía y deshacía el arreglo de gardenias que presidía la mesa. Las rodajas de limón tenían que describir un minucioso abanico, que prestamente se empe¬ñaría luego en restaurar cada vez que alguien se sirviera. Recibía a sus invitados en el pequeño parlour presidido por un retrato de HRM Queen Elizabeth II y, una vez que todos se encontraban sentados en los lugares designados según primorosos cartelitos, con una leve inclinación de cabeza y un medido ademán de la mano derecha, indicaba que podían comenzar a probar los sándwiches, bocaditos, panecillos, muffins, mermeladas, scons y demás delicias que con tanto esmero había preparado. En invierno, se encendía la vieja chimenea pero, si el tiempo lo consentía, prepa¬raba las mesas en el jardín trasero y todos fingían encontrarse en la querida y lejana isla.
También se desempeñaba como secretaria de actas y biblio¬tecaria suplente de la Woman Diocesan Association, que fun¬cionaba en el salón parroquial, donde se organizaban kermeses y ferias de platos para recaudar fondos para indigentes, men¬esterosos y enfermos. La asociación era regida por las mellizas Hypatia y Millicent, ambas hijas del Reverendo Alistair Bulwer-Lytton y casadas, respectivamente, con el Dr. W. C. Howard, a la sazón veterinario del hipódromo del Lomas Jockey Club, y el ingeniero Edward Phillips, gerente general de la fábrica de gal¬letitas. Precisamente en la biblioteca, se abastecía del material que alimentaba su imaginación y exacerbado romanticismo. Se había devorado todas las novelas de Jane Austen y, para inspirarse en la indómita Lizzie Bennet, tenía siempre sobre la mesita de noche un ejemplar de Pride and prejudice. Asimismo, la conmovía hasta las lágrimas la historia de amor entre Edward Rochester y la huérfana devenida en institutriz, protagonista de la novela Jane Eyre de Charlotte Bronte. Disfrutaba por igual de los cuentos de Dickens. Pero su favorito era sin dudas Lewis Carroll, con toda la saga de Alicia en el País de las Maravillas. Los avatares de la niña poblaban sus ejemplificaciones y eran la fuente habitual de citas y comentarios. Así, por ejemplo, la proverbial parsimonia de Jane le hacía exclamar: “¡Acabas con la paciencia de una ostra!”.
De hecho, la mascota familiar se llamaba Cheshire por el gato funámbulo del cuento que, como es bien sabido, poseía las virtudes de sonreír y desaparecer a voluntad. Pero no eran estas caracterís¬ticas las que dieron lugar al bautizo, sino un afán de que el minino hablase. Si bien es cierto que todos los animalitos de ese reino del revés conversaban con Alicia, digamos que a la señorita Iphigenia le resultaba indiferente que el Conejo Blanco o la Oruga hablaran. O en todo caso, le servían para reafirmar su monomanía: si a seres inferiores les estaba concedido el comercio de la palabra, cuánto más a su Cheshire, que era tan inteligente. Las sesiones de adoctrinamiento empezaban a la hora del desayuno y no cesaban nunca. Había días enteros en los que el pobre animal no probaba una gota de leche en represalia por su inconcebible negativa a hablar. Cuando lo sorprendía tomando sol, displicente, entre las hortensias, lo alen¬taba a hablar, a ejemplo de su homólogo o de Tobermory, el también gato parlante del cuento de Saki. Como el bicho daba muestras de cualquier cosa menos de querer hablar, se encrespaba y acudía como último recurso a las irrefutables citas bíblicas, trayendo a colación la historia del profeta Balaam y su locuaz asna, según el relato del Libro de los Números. No obstante que la obtusa mirada del gato le agigantaba la herida, volvía a la carga enunciando que ya en el Jardín Terrenal del Génesis hubo una serpiente parlanchina. Pero la pequeña criatura, además de muda, debía ser sorda y atea.
El asedio de algún atisbo verbal en el pobre Cheshire la man¬tenía en un estado de permanente vigilancia. Había épocas en las que la ansiedad la extenuaba y a veces era tal la obsesión que hasta le costaba conciliar el sueño y andaba irritable e insomne. La infortunada Jane pagaba los platos rotos. Un día razonó que, tratándose de un felino rodeado de hispano parlantes, podía no carecer de lógica que el inglés le resultara un poco arduo y comenzó a hostigarlo en castellano. Pero difícilmente el pobre animal comprendiera mejor cuando le reprochaba que el Conejo Blanco era capaz de expresar: “–¡Válganme mis orejas y bigotes, qué tarde se me está haciendo!”. Ciega en su cometido, se dice que en alguna ocasión anduvo detrás del gato blandiendo en procesión un libraco español con las fábulas completas de Esopo, Fedro, La Fontaine, Iriarte y Samaniego, mientras le recitaba los coloquios de leones, zorros, garzas, serpientes y cuanto ser del bosque conviniera a sus fines. Como si se tratara de una deidad distante, el animal mantenía su mutismo.
Si los inmigrantes italianos o españoles, a los que tachaba de anarquistas o partidarios de la huelga y el desorden, le causaban desconfianza, no era menor el recelo que dispensaba a los hijos de la tierra. No obstante, razonó que, tratándose de mascota nacida en estas pampas australes, haría falta algún ejemplo local para forzar la indómita voluntad del gato. Le llevó un tiempo consider¬able, pero finalmente halló oportuno sustento a su utopía y circuló un tiempo persiguiendo a Cheshire con las peripecias de Yzur, el mono parlante de Leopoldo Lugones. Pero increíblemente, el gato se negaba a replicar la conducta de sus congéneres literarios.
Por más que la dama inglesa se daba bríos recordando que siempre se llega a alguna parte, si caminas lo bastante, a punto estaba de darse por vencida cuando, casi al pasar, leyó una noticia en el Herald. Le costó un rato asimilar que se trataba del periódico y no de otro libro. Se calzó mejor las gafas y repaso la crónica periodística. Entró en un estado de quiet desperation. Una marea ácida comenzó a abrasarle la boca del estómago, se le resecó la garganta y, paradójicamente, no pudo articular palabra. Una cosa son las personificaciones engañosas de cuentos y fábulas con las que una mujer aburrida se entretiene mortificando a su mascota y otra muy distinta es leer, una mañana temprano, que los sueños pueden hacerse realidad, pero en el otro extremo del orbe. La noticia decía:
[UPI– Una señora de 70 años, oriunda de la ciudad de Changchun, afirma que Mimi, su gato, se ha transformado en una celebridad gracias a su habilidad para hablar. “Estaba jugando mahjong en casa con mis amigas, cuando de pronto escuché que alguien me llamaba ‘Laolao’ (abuelita)”, comentó. “Primero pensé que era mi nieta, pero ella no estaba en casa”. Ahí fue cuando se dio cuenta de que la voz no era de un ser humano sino de su adorable gato. “Creo que Mimi aprendió a decir ‘Laolao’ ya que mi nieta me lo dice todo el tiempo”, explicó la dama, agregando que desde esa primera palabra, Mimi ha ampliado su vocabulario].
Recobrado el aliento, sospechó que se trataría de alguna broma de mal gusto o, quizá, de un error de traducción. Con su habitual puntillismo, contactó al bibliotecario titular, que ocupaba un puesto subalterno en la oficina local de United Press International. Phineas Guthrie era de Inverness y, aunque hombre erudito, estaba obligado a trabajar como periodista. Tuvo que revisar algunos papeles para corroborar que la noticia se hubiera publicado realmente. Azorado al constatar el contenido de cada línea, atinó a justificar la situación, explicando que al corresponsal en China lo conocía de la guerra y que era un pecador irredento, dado a la bebida y al opio. Ajeno al mal que se gestaba, se sintió obligado a morigerar la impiedad del aserto y, parafraseando a Lucrecio, recordó que si los átomos, que en cifra innumerable revoloteaban la infinitud del cosmos, después de transitar por múltiples encuentros casuales e infecundos, acertaron, por fin, en conjugarse de modo que dieran para siempre origen al universo y a todo género de seres vivientes, bien podía ser que, en permutación propicia, se hubiera engendrado en la China un gato orador, máxime en un país tan dado a las cifras descomunales.
La señorita Iphigenia Smith-Burnett encontró en la biblioteca un ejemplar de la Toxicología de Erskine, semejante al que Lord Arthur Saville examinó para llevar adelante su asesinato, en la obra epónima de Oscar Wilde. En la farmacia La Inglesa del Sur, no le hizo falta mentir. Conforme la más socorrida etiqueta, un delicado plato de porcelana de John Aynsley and Sons ofició de eficaz patíbulo.

© PABLO MARTÍNEZ BURKETT, 2009

miércoles, 27 de julio de 2011

Sueño 48 - Pablo Martínez Burkett



sueño 48


En el sueño, erraba por una calle con edificaciones bajas, como de pequeñas iglesias, llenas de placas y crucifijos de metal. Las vereditas eran muy angostas y parecía haber llovido. Era de noche y lo acompañaba su padre. Un restallar de cirios le recordó la Semana Santa, pero antes que a cera e incienso, el aire olía a fruta madura. Unas imágenes de negro rezaban en medroso silencio. Cuando reconoció a sus deudos ya muertos, supo que no estaba soñando.

Pablo Martínez Burkett
Del Forjador de penumbras, colección con sus mejores relatos, por la editorial Galmort (Buenos Aires, Argentina; 2011).

domingo, 8 de mayo de 2011

DEL PERCHE' SI PERDONO GLI OMBRELLI (traduzione di Marcela Filippi Plaza)


DEL PERCHE' SI PERDONO GLI OMBRELLI

di Hector Alvarez Castillo

(traduzione di Marcela Filippi Plaza)


Ci sono quelli che, erroneamente, attribuiscono alla distrazione e alla mancanza di percezione l'origine dello smarrimento degli ombrelli mentre, invece, un'analisi molto chiara ci rivela che in comune con gli incidenti e la fatalità, ci sarebbe, alla radice, la disorganizzazione con la quale conviviamo.

Il disordine nasce da motivazioni di diverso carattere, da quelle naturali a quelle cosiddette umane o artificiali. Fin dai tempi dei nostri antenati, destino è il vocabolo più utilizzato, che abbiamo coniato per relazionare quei fenomeni che dinanzi alla nostra percezione ci appaiono singolari. E' pur vero che questi si manifestano in numero significativo. Soffermiamoci e consideriamo: Perché i giorni cambiano? A cosa è dovuto il fatto che non si sappia a cosa attenersi quando si lascia presto il proprio focolare e si fa ritorno la sera molto tardi? Perché fa freddo, o fa caldo, dietro un arbitrio che non riusciamo a comprendere? Nonostante facciamo fatica a crederlo, è lì che iniziano, irrimediabilmente gli smarrimenti di ombrelli. (In questo saremo platonici: c'è un ombrello soltanto, che è lo stesso ombrello che tutti noi perdiamo ogni volta, e che qualcuno poi trova, sorride e con molto riguardo lo custodisce tra le sue cose posandolo dentro l'armadio fino al giorno in cui verrà nuovamente smarrito. Ombrello, altro non è che la nozione o l'idea di ombrello che costantemente viene reiterata nel nostro linguaggio e che ci serve per poterlo trasferire alla realtà).

Se fossimo ordinati, se al mondo le cose funzionassero come Dio comanda; una mattinata senz'acqua sarebbe seguita da un pomeriggio e da una notte senz'acqua, un albeggiare caratterizzato da acquerugiola e acquazzone seguirebbe un pomeriggio e una notte di acquarugiola e acquazzone. Siamo sinceri, mentre viene giù l'acqua dal cielo, chi può cessare di pensare a quel congegno di protezione. Nessuno di noi. Ed è proprio lì che si trova la domanda chiave: Perché voi annualmente smarrite uno, due o più ombrelli? Perché semplicemente non ci mettiamo d'accordo su nulla; quello è il segreto. Se riuscissimo ad organizzarci e riuscissimo a risolvere il punto che un giorno di pioggia è un giorno di pioggia e un giorno di sole, un giorno di sole, non vi si presenterebbe nemmeno l'occasione di smarrire l'ombrello nel taxi-collettivo, metro o treno. Nei bar non si vedrebbero ombrelli appesi alle sedie provocando l'entusiasmo di sguardi anonimi, e nessuno sarebbe tentato di prenderseli. Nel bel mezzo della pioggia, voi, non sareste mai distratti al punto di smarrire lo strumento di salvataggio. Giorno di sole è giorno di sole, giorno di pioggia è giorno di pioggia. Bisogna avere molto chiara quella dicotomia e non farsi trascinare dalle moderne tergiverazioni della morale. La nostra responsabilità e organizzazione ci salveranno. Questa è la norma.

Rammentiamo cosa succedeva in Cina, durante l'epoca d'oro dell'Impero. Lì, le cose funzionavano nel modo in cui corrispondono. L'Imperatore era l'Imperatore, l'operaio, operaio e capoperaio, capoperaio. Grazie a quelle sottigliezze si è potuta costruire la Grande Muraglia dinanzi alla quale ci sentiamo profondamente orgogliosi. In quegli anni remoti gli operai cinesi nei giorni di tormenta e acquazzone usavano un piccolo parasole. Il parasole – successivamente denominato ombrello – aveva un diametro che oscillava tra i novanta centimetri e un metro e venti. Quello degli operai meno qualificati aveva un colore scuro e si attenuava secondo le gerarchie relative alle arti della costruzione. Esisteva, poi, secondo i distaccamenti di soldati operai un grande parasole o parasole maggiore che veniva sistemato per offrire riparo a intere squadre di operai e allo stesso capoperaio che guidava i lavori.

Il parasole – considerando l'estensione del suo diametro di circa otto metri – era trasportato e sostenuto da uno o due cinesi, nutriti specificamente per svolgere questo tipo di compito. Dove mettevano, i cinesi,questi strumenti nei giorni primaverili? Quella è un'altra chiave, lì quando pioveva, pioveva e quando no, no. Questi strumenti erano sotto la custodia di persone addestrate specificamente per svolgere quei compiti,li lasciavano con cura uno accanto all'altro, in caverne segrete costruite ai margini della Grande Muraglia, luoghi, questi, che hanno visto poche mani da quei lontani anni.

Ma questa è un'altra storia e non dobbiamo mescolare né confondere né parlare di tanti temi, di tutti e di tutto allo stesso tempo. Quella non è nostra intenzione né tantomeno nostra abitudine.


Sáenz Peña, agosto 2005
Del libro: "Naif. Del Juego a la Literatura"

De por qué se pierden los paraguas


De por qué se pierden los paraguas


Están los que por error consideran al incipiente extravío de paraguas consecuencia de la distracción y el embotamiento, cuando un sincero análisis nos revela que, a semejanza de la mayoría de los accidentes y de las fatalidades, éste también se debe a la desorganización en la que, tontamente, nos pasamos la vida.
El desorden proviene de causas de toda índole, desde las naturales hasta las llamadas humanas o las artificiales. Desde los tiempos de nuestros ancestros, destino es el vocablo más acabado que hemos acuñado para las relaciones de fenómenos que a nuestra percepción se presentan como singulares. Es verdad que éstos se manifiestan en número significativo. Pero deténgase un instante y considere: ¿Por qué los días son cambiantes? ¿A qué se debe que uno no sepa a qué atenerse cuando abandona temprano el hogar y regresa a altas horas de la noche? ¿Por qué hace frío o hace calor, bajo un arbitrio que no alcanzamos a discernir? Aunque a usted le cueste creerlo, ahí comienzan, irremediablemente, los extravíos del paraguas. (En esto vamos a ser platónicos: hay un solo paraguas que es el mismo paraguas que perdemos todos nosotros una y otra vez, y que alguien encuentra, sonríe y presuroso pasa a guardarlo entre sus cosas, hasta que descansa en el armario y algún día también él lo extravía. No hay más paraguas que la noción o idea de paraguas, que reiteramos constantemente en nuestro lenguaje y desde ahí trasladamos a la realidad.)

Si fuésemos ordenados, si en el mundo algo funcionase cómo Dios manda, a una mañana sin agua, le seguiría una tarde y una noche sin agua, y a un amanecer con llovizna y chaparrones lo continuaría una tarde y una noche con llovizna y chaparrones. Sea sincero, con agua cayendo desde el cielo quién deja de pensar en ese artefacto protector. Ninguno de nosotros. Y ahí está la pregunta clave: ¿Por qué usted pierde anualmente uno, dos o más paraguas? Porque no nos ponemos de acuerdo en nada, ése es el secreto. Si nos organizáramos y resolviéramos que un día de lluvia es un día de lluvia y un día de sol un día de sol, usted no tendría, siquiera, oportunidad alguna de olvidarse el paraguas en el colectivo, subte o tren. En los cafés no se verían colgando de las sillas paraguas que entusiasman miradas anónimas, al tiempo que nadie se anima a tomarlos. Usted en medio de la lluvia jamás va a estar distraído al punto de extraviar la herramienta salvadora. Día de sol es día de sol, día de lluvia es día de lluvia. Hay que tener en claro esa dicotomía y no andar con modernas tergiversaciones de la moral. Nuestra responsabilidad y organización nos hará salvos. Ésa es la norma.

Recuerde cómo era en China, en la época dorada del Imperio. Ahí las cosas funcionaban como corresponde. El Emperador era Emperador, el obrero, obrero y capataz el capataz. Gracias a esas sutilezas se pudo construir la gran muralla que ahora hace que se nos hinche el pecho de orgullo. En esos lejanos años los obreros chinos usaban una breve sombrilla en los días de tormenta y aguacero. La sombrilla –luego denominada paraguas– tenía un diámetro que oscilaba entre los noventa centímetros y el metro veinte. Era de color oscuro para los obreros menos calificados e iba atenuándose según la jerarquía en las artes de la construcción. Y, por destacamento de soldados obreros, existía una gran sombrilla o sombrilla mayor, preparada para proteger cuadrillas enteras de obreros y al mismo capataz que estaba al mando.
Ésta –debido a su extenso diámetro, cercano a los ocho metros– era transportada y sostenida por uno o dos chinos alimentados especialmente para esa tarea. ¿Dónde guardaban los chinos estos implementos en los días primaverales? Ésa es otra clave, ahí cuando llovía, llovía y cuando no, no. Y estos rudimentos pasaban a la custodia de seres especialmente adiestrados para esas tareas, que los dejaban, cuidadosamente, uno al lado del otro, en ocultas cavernas construidas a la vera de la gran muralla, sitios que han hollado pocas manos desde aquellos antiguos años.
Pero eso es otra historia y no debemos mezclarnos y confundirnos y hablar de uno y otro tema, todos y de todo, al mismo tiempo. Ésa no es nuestra intención, esos no son nuestros hábitos.


Sáenz Peña, agosto de 2005
Del libro: "Naif. Del Juego a la literatura".

Publicado en México, en la revista "Algarabía", Nro. 57, Año VII (Junio, 2009)

TOPOLOGIA CELESTE traduzione di Marcela Filippi Plaza


TOPOLOGIA CELESTE

di Hector Alvarez Castillo

(traduzione di Marcela Filippi Plaza)



I teologi hanno interpretato in modo sbagliato l'ubicazione del cielo, del purgatorio e dell'inferno. Errore diffusosi per superstizione, pregiudizio o abitudine che la Fede non ha mai osato correggere. Questa storica e umana elusione del "Credo" esprime il concetto che il purgatorio si trova tra il cielo e l'inferno e che è il luogo dove si ritirano le anime per curarsi, non per castigo, azione che si verifica nel luogo che nella nostra lingua porta il nome simile a quello di infermo e che Dio, con delicatezza creò a tale scopo.

Non essendo l'ubicazione del purgatorio quella che fino ad oggi veniva considerata autentica, si percepisce in realtà, che alle porte del cielo si trova l'inferno e che, quindi, solo e soltanto sotto di esso – per indicare qualche definizione, fisica accessibile al discernimento umano – si trova il purgatorio. Coloro i quali non riescono a permanere in cielo precipitano bruscamente all'inferno, trascinando insieme ad essi pietre e altri fastidi che non sono altro che ostacoli, memoria e tormenti per quei disgraziati. Essi sanno che da qualsiasi punto delle gallerie dell'inferno si può contemplare il cielo infinito, e questo li inabissa fino all'orrore, particolare che nemmeno la Santa Inquisizione è stata mai capace di cogliere.

Riguardo al purgatorio, alcuni mistici hanno divulgato – talora prigionieri di una condotta eretica – che attraverso questo non si va da nessuna parte, ma, grazie alla scienza e con una mano sul cuore, debbo confessare con quasi certezza che questo tema non sia di interesse per quelli del cielo nè per gli improbi dell’inferno.

Palermo, septiembre de 1994
Del libro "Metamorfosis",
Publicado como nota en L'Isola di Prospero.

En español: http://literaturaalpaso.blogspot.com/2010/01/topologia-celeste.html

 

martes, 3 de mayo de 2011

Carta de Ernesto Sabato a Luis Noseda


Carta de Ernesto Sabato a Luis Noseda


Carta de Ernesto Sabato a Luis Noseda
Transcripción: Héctor Alvarez Castillo


La carta que aquí transcribimos aparece en el libro de Luis Noseda “Memorias de un soñador”, y surge de un pedido realizado por este escritor y periodista al autor de “Sobre héroes y tumbas”. Los temas que aborda Sabato y la síntesis con la que los comenta, le otorgan a este testimonio un gran valor biográfico.



Me pide usted, Noseda, que le diga algo a propósito del barrio, de este Santos Lugares en que he vivido toda mi existencia literaria; de donde salieron todos mis libros y donde mis dos chicos pasaron su infancia y su adolescencia. Pensé que cuando saliera de este vértigo en que vivo en estos últimos tiempos le escribiría algo sobre uno de los problemas que más me obsesiona: el de esa calamidad del siglo XX que es la megalópolis, la ciudad monstruosa y despersonalizada, y de cómo una comunidad a la escala del hombre como esta de Santos Lugares, o lo que todavía sigue siendo cualquier barrio tranquilo de Buenos Aires, es lo único que vale la pena conservar, la sola forma de convivencia que nos ha de salvar de la total alienación.
Pero, ahora, mientras escribo estas líneas deshilvanadas al correr de la máquina, se me ocurre que tal vez sea mejor recordar aquí la pequeña historia de mi llegada a la calle Bonifacini, a la antigua calle Bonifacini.
Pero no estoy aquí por azar, porque no hay azar en las cosas del espíritu: hay destinos, hay propósitos, concientes o inconcientes. Llegué a este lugar porque huí de esa ciencia que es precisamente la culpable de esta colosal crisis en que se debate la humanidad. Y si vine a vivir a esta casa fue justamente porque ya en aquel tiempo pensé que la gran ciudad era el producto último (y siniestro) de esta civilización tecnológica.
No es un secreto que estudié física en La Plata y que después del doctorado me becó el profesor Houssay para trabajar en radiaciones atómicas en París, con la hija de Madame Curie. ¡Pobre Houssay! Nunca me perdonó mi abandono de la ciencia y durante quince o veinte años me negó el saludo, me consideró como una especie de traidor, hasta que un día, en alguna reunión no sé a raíz de qué, acercándome a él le pregunté si no era ya bastante, si después de haber publicado cinco o seis libros no había hecho lo suficiente para merecer su perdón. Y sonriendo levemente me tendió la mano y así quedamos en paz. Cuando fui a París en realidad yo había empezado la quiebra espiritual que me alejaría de la ciencia y aunque siempre me fascinó lo que la física y la matemática tienen de creación casi fantástica (una teoría como la relatividad tiene la belleza de “La pasión según San Mateo”, de Bach, o la hermosura de una catedral gótica), había llegado a la conclusión que de esa actividad purísima del espíritu salía la tecnología y de ésta la cosificación del hombre. En fin, no diré aquí en cuatro palabras, a la disparada, lo que escribí en todo un libro publicado en 1951, “Hombres y engranajes”, obra en que precisamente describo el proceso mental y espiritual que me llevó al abandono de aquello que en mi adolescencia me había deslumbrado, aquel orden platónico del orbe matemático que buscaba en medio de mi tumulto interior, de mis ansiedades y angustia de adolescente.
De modo que, como le estaba contando, al llegar a París, en 1938, comprendí que aquello no tenia ni pie ni cabeza y que pronto dejaría de lado aquello por lo que Houssay soñaba. Y así, mientras de día trabajaba con el uranio en el Laboratoire de la calle Pierre Curie, de noche me mezclaba con los surrealistas, del mismo modo que el Dr. Jekill se transformaba en el detestable Mr. Hyde. Y comencé a escribir una novela denominada “La fuente muda” de la que sólo publiqué unos fragmentos, mucho más tarde, en la revista SUR.
Vino la guerra y volvía a La Plata, y aunque trabajaba y enseñaba la teoría de los cuántos y la relatividad en el Instituto de Física de la Universidad, en secreto trabajaba en literatura y pensaba cómo y cuánto abandonar para siempre aquellas “altas torres de mi adolescencia”. Pasó una serie de cosas que no tendré aquí ni tiempo ni espacio para narrar, pero lo cierto es que un día resolví quemar las naves, como se dice.
Era por el año 1943, vivíamos con Matilde y con Jorgito (que tenía unos cuatro años) en la calle Tagle, cerca de lo que ahora es el Automóvil Club. Cuando decidí dejar todo, con el apoyo, naturalmente, de mi mujer, le pregunté a mi amigo Enrique Wernicke si no sabía de alguien en Córdoba que me alquilase un rancho, y me dijo que sí, hablándome de alguien que yo no conocía personalmente pero del cual todo el mundo sabía su nombre, por haber sido el dueño de una empresa de filmación: don Federico Valle. Me contó que se había arruinado con el incendio de sus laboratorios, que no tenía seguro (conociéndolo después, comprendí que era muy natural en él) y que desde 1938 vivía en un barrio de Buenos Aires, pero que pasaba largo tiempo en un rancho, en plena sierra, cerca de Carlos Paz. Me dijo que en ese momento estaba en Buenos Aires y que le preguntaría si era posible alquilarme su rancho.
Y así a los pocos días me trajo a un hombre de barba blanca, que parecía un profesor de película, sonriente y reservado. Sí, estaba dispuesto a alquilarme el rancho. Y él ¿dónde viviría? En una carpa, tenía una carpa como depósito y se podía acomodar allí. Le pregunté en cuánto me alquilaría el rancho y me dijo que en quince pesos mensuales. Hice mis cálculos (me iba con la mitad de un sueldo de profesor) y le dije bueno. Y así nos fuimos.
Era sobre el río Chorrillos, a una legua de lo que entonces era Carlos Paz. Y digo entonces porque por aquel tiempo era un pueblito. No teníamos, claro está, ni luz ni vidrios en las ventanas. Y aquel invierno hubo para desdicha catorce grados bajo cero, hasta el punto que el río Chorrillos se heló. Nos teníamos que calentar como el mismo sol de noche con que nos alumbrábamos, y a eso de las siete nos metíamos en la cama, de puro frío que hacía.
Pasamos casi un año, y allí escribí mi primer libro, “Uno y el Universo”, que se publicó en 1945. Un librito que es una especie de balance de mi vida anterior y algo así como el tránsito a lo que fue mi vida posterior.
Debo decir que durante ese período nos venían a ver, de vez en cuando, el director del Observatorio de Córdoba, el profesor Enrique Gaviola, astrofísico famoso en el mundo entero, del cual yo había sido asistente en La Plata, y el profesor Guido Beck, emigrado judío, ex alumno brillante de Albert Einstein. Los dos trataban de convencerla a Matilde. Pero no pudieron. En rigor ellos tenían razón, porque ni siquiera sabía lo que yo era capaz de hacer en literatura, y abandonaba por una especie de fantasma que finalmente podía ser un simple espejismo.
Dejé entonces la ciencia para siempre, no quise ni siquiera guardar un libro de física y matemática en mi biblioteca; los regalé a mis ex compañeros y discípulos, uno de los cuales fue José Balseiro, cuyo nombre lleva ahora el Instituto de Bariloche.
Había que volver a Buenos Aires. ¿Pero adónde? Don Federico me ofreció alquilarme una casa que estaba –me dijo– en Santos Lugares. ¿Qué era eso? Jamás había oído hablar de tal sitio. Nos vinimos juntos desde Córdoba y me mostró la casa, y aquí nos quedamos. Le pregunté donde viviría él. Me dijo que viviría en el sótano. Siempre había tenido vocación por cuevas, subterráneos y cosas así. Allí se improvisó un pequeño departamentito y una pieza arriba, y así vivimos con Federico y con su hija Marina o Marinette (como él la llamaba), durante muchísimos años. Cuando Marina se casó con Dacal (que supo jugar al basquet en el club Defensores), se hicieron un departamento de la parte de atrás. Finalmente, aquello les quedó chico con el nacimiento de sus hijos y se fueron a vivir por aquí, cerca de Villa Lynch. Y yo le compré la casa a don Federico.
Y aquí estoy, para siempre. De aquí me sacarán en el cajón. Y me sacarán únicamente así, porque para mí Santos Lugares es ahora mi patria chica. Vine cuando todavía se encontraban por aquí boliches con mostrador de estaño. Así hubiese querido que permaneciera, pero sé que es imposible. Espero, al menos, que no construirán horrendos edificios torres, para que también aquí nazcan y crezcan chiquitos que sepan lo que es el pasto, las gallinas, los gatos, los grandes patios, las parras y las glicinas. ¿El sueño de un viejo reaccionario? ¿O la imaginación de alguien que ve más lejos que los que creen que el precio del metro cuadrado de terreno en más importante que el precio de un ser humano?

viernes, 11 de marzo de 2011

David Viñas Un intelectual irreverente


A LOS 83 AÑOS, MURIO AYER EL ESCRITOR Y CRITICO DAVID VIÑAS
Un intelectual irreverente


Autor de Los dueños de la tierra y Un dios cotidiano, entre otras grandes obras, y fundador de la revista Contorno, formó a través de sus páginas a varias generaciones. Se extrañará su espíritu polemista y el estilo visceral con el que defendía sus ideas.


Por Silvina Friera



La calle Corrientes ya no será la misma sin el viejo David Viñas, obstinado insuperable y voz entrañable, que murió ayer a los 83 años, a raíz de una neumonía que derivó en una septicemia. El gran escritor, crítico y polemista inigualable deja a varias generaciones en ese doloroso desamparo llamado orfandad. Muchos han tenido el inquietante placer de verlo subrayar con malicia y ferocidad el diario La Nación en el café Losada, en La Paz o los bares que frecuentaba. Cuántos escritores y lectores de a pie han devorado sus novelas y ensayos y lo adoptaron, sin vacilar, como modelo y maestro, aunque por su formación “más bien anárquica”, su estilo visceral, a contrapelo de todo aquello que oliera a biempensante, no perdía la ocasión para aclarar que no le gustaban los títulos ni las consideraciones. Lo exasperaba que lo consideraran un pedagogo, pero a través de sus páginas y sus clases formó a varias generaciones de intelectuales. Roberto Fontanarrosa solía comentar que su primer enganche con la literatura había sido a través del autor de Un dios cotidiano y Hombres a caballo. “Los personajes de sus novelas –decía Fontanarrosa– hablaban como mi viejo. No hablaban de tú. Y puteaban.”

La memoria es un engranaje fallido que no respeta la cronología cuando hay que escribir, con urgencia y tristeza, una necrológica. Lo primero que irrumpe en el manojo de recuerdos no es meramente literario, es un gesto político que alborotó al mundillo cultural de la Argentina. Sus resonancias aún persisten. En 1991 Viñas rechazó la Beca Guggenheim. “Fue un homenaje a mis hijos. Me costó veinticinco mil dólares. Punto.” Así nomás, sin muchos artilugios: contundente y demoledor. Sus hijos, María Adelaida y Lorenzo Ismael, conviene agregar para calibrar más y mejor las dimensiones de esa decisión, fueron secuestrados y desaparecidos por la dictadura militar. Pero antes de exiliarse y dar cátedras magistrales de literatura en California, Berlín, Dinamarca, Roma, México y Venezuela, habría que repasar su formación. Nació en Buenos Aires, en la esquina de Talcahuano y Corrientes, en 1929. Estudió en una escuela de curas, ingresó en el colegio militar, pero fue dado de baja, según escribió, en 1945, por insubordinación ante la tropa armada. Hay una foto que registra un momento memorable de principios de la década del ’50: el joven Viñas (tenía entonces 23 años) le tomó el voto a Evita, que agonizaba en el Hospital de Lanús. “Mi familia no era gorila –advertía por las dudas que lo confundieran–; éramos contreras, que no es lo mismo. Los gorilas despreciaban al pueblo, los contreras criticaban al peronismo sin ningunear sus bases.”

Viñas fundó la revista Contorno, cuyas páginas combinaron altas dosis de marxismo y existencialismo. En esa emblemática revista se releyó el peronismo, a Mallea, Marechal y Arlt. Parafraseándolo, porque la tentación es fuerte, fue un intelectual irreverente que se subió al caballo de la historia por la izquierda. Y se bajó, siempre, por la izquierda. Nunca cedió un ápice de su posición frontal, combativa. Ni en sus mejores páginas. Ni en su vida cotidiana. Uno de los ejes de la obra del autor de Los dueños de la tierra (1958), Cuerpo a cuerpo (1979) e Indios, ejército y frontera (1982) ha sido la constante indagación sobre las formas de la violencia oligárquica y sus múltiples manifestaciones en distintos planos de la historia nacional, como observó Ricardo Piglia. Ganó el premio Gerchunoff en 1957 por su novela Un Dios cotidiano. Un año antes, en 1956, Dar la cara había recibido el Premio Nacional de Literatura, que volvió a ganar en 1971 por su libro Jauría. En una entrevista con Página/12 en 2006 decía que le interesaba más Evo Morales, por su “mayor nitidez y latinoamericanismo”, que el entonces presidente Néstor Kirchner. “Lo mejor de Kirchner fue cuando le dijo al teniente general Bendini: ‘Proceda’. Ese fue el mejor momento del gobierno de Kirchner, no me lo voy a olvidar. Bendini tuvo que poner un banquito y sacarlos”, afirmaba.

Su última novela publicada fue Tartabul o los últimos argentinos del siglo XX. Los personajes del último Viñas –Tartabul, El Chuengo, Moira, El Tapir, Pity y El Griego– fueron militantes políticos en los setenta. La definía como “una especie de réquiem”, una reactualización de Los siete locos, de Roberto Arlt, en la generación del Che. El viejo confesó a regañadientes que le gustaría ser recordado por la irreverencia ante el poder actual. Como decía Vallejo y repetía Viñas: “Perdonen la tristeza”.

Publicado en la edición en papel y online del periódico Página /12, del viernes 11 de marzo de 2011.

miércoles, 2 de marzo de 2011

Si Borges viviera...


Si Borges viviera...
Por Pablo Sirven


Que Jorge Luis Borges ya no esté entre nosotros al menos permite que a nadie se le ocurra discutir su bien ganado prestigio de ser considerado unánimemente el mejor escritor argentino.

Pero si Borges viviera, otras pasiones más tempestuosas girarían a su alrededor, porque ante sus filosas ocurrencias el humor de algunos hacia el autor de Ficciones se mostraría un tanto más acuoso.

Si Borges estuviese aquí opinando, en serio o en broma, de ciertas exuberancias kirchneristas, 678 lo tendría a maltraer y la intelligentzia oficialista lo estaría castigando en declamaciones histriónicas o solicitadas henchidas de fervor gubernamental.

¿Que a Borges no le habría pasado? Si tras la asunción de Juan Domingo Perón a la presidencia de la Nación, en 1946, se lo humilló con el cargo de "inspector de mercados de aves de corral", arrancándolo de una biblioteca municipal, no es difícil imaginar qué habrían hecho con él estos hijos y nietos de la gran familia peronista fundada hace más de 60 años.

Atacar a Mario Vargas Llosa parece más fácil todavía: primero, porque es extranjero (y eso abroquela voluntades con encendido espíritu chauvinista); segundo, porque su adhesión a la democracia liberal y su declarada alergia a cualquier tipo de autoritarismo personalista lo convierten automáticamente en un enemigo al que conviene mantener a distancia. Y tercero, y crucial punto clave: Vargas Llosa ha sido muy duro y categórico a la hora de catalogar a los Kirchner. Querrían que sólo hable de literatura y no de política.

Por cierto no hay obligación, ni mucho menos, de acordar con las opiniones del último premio Nobel de Literatura en este o cualquier otro tema. Pero parece triste papel, tan luego para intelectuales, que se comploten para intentar amordazarlo. Porque de eso se trata cuando hierve un puñado de ellos para expresar su "profundo desagrado y malestar", al blandir la espada de la censura previa (aunque ni siquiera hay certeza de lo que Vargas Llosa vendrá a decirnos).

Reprueban por "inoportuna" y "agraviante" que se lo haya convocado a la apertura de la Feria del Libro porque consideran que irá en contra de "las preferencias democráticas y mayoritarias de nuestro pueblo". ¿Pero no es, acaso, el papel del intelectual ser un revulsivo de la sociedad, un atrevido agitador de neuronas que pone patas arriba los principios para ver qué tan sólidos o hipócritas son?

El intelectual que únicamente aplaude y lisonjea al poder de turno, advirtiendo alarmado sobre los que se desvían de ese monótono libreto, es un mero propagandista y ya no merece ser llamado intelectual. Menos todavía si para entrar en razones tiene que intervenir la mismísima presidenta de la Nación.

Los ahora frustrados aprontes están paradójicamente emparentados con otro tipo de represiones más nefastas que ya Vargas Llosa sufriera en nuestro país, cuando la dictadura militar prohibió su novela La tía Julia y el escribidor tan sólo porque en su trama sobresalía demasiado un personaje que hablaba muy mal de los argentinos.

Hablando de Borges, viene al caso recordar que opinaba que las dictaduras fomentan la opresión, el servilismo y la crueldad, pero que lo más abominable que hacen es fomentar la idiotez.

Si estuviese ahora entre nosotros, asistiendo a este nuevo sainete protagonizado por sus ex colegas, Borges comprobaría que la idiotez es imperecedera y atraviesa a la condición humana.

Publicado en La Nacion online 2 de marzo de 2011

sábado, 12 de febrero de 2011

Sarmiento - El rebelde, el revolucionario


Domingo Faustino Sarmiento
(1811 - 1888)

Felipe Pigna


El 15 de febrero de 1811, nació en el Carrascal uno de los barrios más pobres de la ciudad de San Juan, Domingo Faustino Sarmiento. Los primeros "maestros" de Domingo fueron su padre José Clemente Sarmiento y su tío José Eufrasio Quiroga Sarmiento, quienes le enseñaron a leer a los cuatro años. En 1816, ingresó a una de las llamadas "Escuelas de la Patria", fundadas por los gobiernos de la Revolución, donde tuvo como educadores a los hermanos Ignacio y José Rodríguez, éstos sí maestros profesionales.

Cuando terminó la primaria, su madre, Doña Paula Albarracín, quiso que estudiara para sacerdote en Córdoba, pero Domingo se negó y tramitó una beca para estudiar en Buenos Aires. No la consiguió y tuvo que quedarse en San Juan donde fue testigo de las guerras civiles que asolaban la provincia. Marchó al exilio en San Francisco del Monte, San Luis, junto a su tío, José de Oro. Allí fundaron una escuela que será el primer contacto de Sarmiento con la educación.

Poco después, regresó a San Juan y comenzó a trabajar en la tienda de su tía. "La Historia de Grecia la estudié de memoria, y la de Roma enseguida…; y esto mientras vendía yerba y azúcar, y ponía mala cara a los que me venían a sacar de aquel mundo que yo había descubierto para vivir en él. Por las mañanas, después de barrida la tienda, yo estaba leyendo, y una señora pasaba para la Iglesia y volvía de ella, y sus ojos tropezaban siempre, día a día, mes a mes, con este niño inmóvil insensible a toda perturbación, sus ojos fijos sobre un libro, por lo que, meneando la cabeza, decía en su casa: ‘¡Este mocito no debe ser bueno! ¡Si fueran buenos los libros no los leería con tanto ahínco!’"

En 1827, se produjo un hecho que marcará su vida: la invasión a San Juan de los montoneros de Facundo Quiroga.

Decidió oponerse a Quiroga incorporándose al ejército unitario del General Paz. Con el grado de teniente, participó en varias batallas. Pero Facundo parecía por entonces imparable: tomó San Juan y Sarmiento decidió, en 1831, exiliarse en Chile. Se empleó como maestro en una escuela de la localidad de Los Andes. Sus ideas innovadoras provocaron la preocupación del gobernador. Molesto, se mudó a Pocura y fundó su propia escuela. Allí se enamoró de una alumna con quien tendrá su primera hija, Ana Faustina.

En 1836, pudo regresar a San Juan y fundar su primer periódico, El Zonda. Pero al gobierno sanjuanino no le cayeron nada bien las críticas de Sarmiento y decidió, como una forma de censurarlo, aplicarle al diario un impuesto exorbitante que nadie podía pagar y que provocó el cierre de la publicación en 1840. Volvió a Chile y comenzó a tener éxito como periodista y como consejero educativo de los sucesivos gobiernos.

"¿Que es pues un periódico? Una mezquina hoja de papel, llena de retazos, obra sin capítulos, sin prólogo, atestada de bagatelas del momento. Se vende una casa. Se compra un criado. Se ha perdido un perro, y otras mil frioleras, que al día siguiente a nadie interesan. ¿Qué es un periódico? Examinadlo mejor. ¿Qué más contiene? Noticias de países desconocidos, lejanos, cuyos sucesos no pueden interesarnos. (...) Trozos de literatura, retazos de novelas. Decretos de gobierno. (...) Un periódico es el hombre. El ciudadano, la civilización, el cielo, la tierra, lo pasado, lo presente, los crímenes, las grandes acciones, la buena o la mala administración, las necesidades del individuo, la misión del gobierno, la historia contemporánea, la historia de todos los tiempos, el siglo presente, la humanidad en general, la medida de la civilización de un pueblo." D. F. Sarmiento, El Zonda Nº 4.

En Chile, Sarmiento pudo iniciar una etapa más tranquila en su vida. Se casó con Benita, viuda de Don Castro y Calvo, adoptó a su hijo Dominguito y publicó su obra más importante: Facundo, Civilización y Barbarie. Eligió el periodismo como trinchera para luchar contra Rosas. Fundó dos nuevos periódicos: La Tribuna y La Crónica, desde los que atacó duramente a Don Juan Manuel.

Entre 1845 y 1847, por encargo del gobierno chileno, visitó Uruguay, Brasil, Francia, España, Argelia, Italia, Alemania, Suiza, Inglaterra, EEUU, Canadá y Cuba. En cada uno de estos países, se interesó por el sistema educativo, el nivel de la enseñanza y las comunicaciones. Todas estas impresiones las volcó en su libro Viajes por Europa, África y América. A fines de 1845 conoció en Montevideo a Esteban Echeverría, uno de los fundadores de la generación del ’37 y como él, opositor a Rosas y exiliado. Estando en Francia, en 1846, tuvo un raro privilegio: conocer personalmente al general San Martín en su casa de Grand Bourg y mantener una larga entrevista con el libertador.

De regreso a Chile, incrementó su actividad periodística contra Rosas, lo que motivó que el gobernador de Buenos Aires solicitara dos veces la extradición de Sarmiento para juzgarlo por calumnias, cosa a la que el gobierno chileno se negó.

Sarmiento pensaba que el gran problema de la Argentina era el atraso que él sintetizaba con la frase "civilización y la barbarie". Como muchos pensadores de su época, entendía que la civilización se identificaba con la ciudad, con lo urbano, lo que estaba en contacto con lo europeo, o sea lo que para ellos era el progreso. La barbarie, por el contrario, era el campo, lo rural, el atraso, el indio y el gaucho. Este dilema, según él, solo podía resolverse por el triunfo de la "civilización" sobre la "barbarie". Decía: "Quisiéramos apartar de toda cuestión social americana a los salvajes por quienes sentimos sin poderlo remediar, una invencible repugnancia". En una carta le aconsejaba a Mitre: "no trate de economizar sangre de gauchos. Este es un abono que es preciso hacer útil al país. La sangre es lo único que tienen de seres humanos esos salvajes". Lamentablemente el progreso no llegó para todos y muchos "salvajes y bárbaros" pagaron con su vida o su libertad el "delito" de haber nacido indios o de ser gauchos y no tener un empleo fijo.

La obra literaria de Sarmiento estuvo marcada por su actuación política desde que escribió en 1845: "¡Sombra terrible de Facundo, voy a evocarte, para que, sacudiendo el ensangrentado polvo que cubre tus cenizas, te levantes a explicarnos la vida secreta y las convulsiones internas que desgarran las entrañas de un noble pueblo! (...) Facundo no ha muerto ¡Vive aún! ; está vivo en las tradiciones populares, en la política y las revoluciones argentinas; en Rosas, su heredero, su complemento. (...) Facundo, provinciano, bárbaro, valiente, audaz, fue reemplazado por Rosas, hijo de la culta Buenos Aires, sin serlo él, (...) tirano sin rival hoy en la tierra". Estos párrafos del Facundo nos muestran el estilo de Sarmiento. Facundo, a quien odia y admira a la vez, es la excusa para hablar del gaucho, del caudillo, del desierto interminable, en fin, de la Argentina de entonces, de todos los elementos que representan para él el atraso y con los que hay que terminar por las buenas o las malas.

Sarmiento desde Chile alternó su actividad periodística con la literaria y educativa. En su libro Viajes (1849) se reflejan mucho más que las impresiones de un viajero atento y observador; allí se ocupó de lo que lo maravilla de los países que visita y que quisiera ver en su tierra. Pone el acento en el progreso industrial, el avance de las comunicaciones y de la educación.

En su libro Argirópolis (1850) dedicado a Urquiza, expresó un proyecto para crear una confederación en la cuenca del Plata, compuesta por las actuales Argentina, Uruguay y Paraguay, cuya capital estaría en la Isla Martín García. El modelo de organización era la Constitución norteamericana y proponía fomentar la inmigración, la agricultura y la inversión de capitales extranjeros.

Mantuvo fuertes polémicas con políticos y escritores de su tiempo, como Juan Bautista Alberdi, con quien no coincidía en apoyar a Urquiza. Esta polémica se expresó a través de sus libros. Alberdi escribió Complicidad de la prensa en las guerras civiles de la República Argentina y Cartas Quillotanas y Sarmiento le respondió con Las ciento y una y Época preconstitucional y Comentarios a la Constitución de la Nación Argentina.

En 1862 el general Mitre asumió la presidencia y se propuso unificar al país. En estas circunstancias asumió Sarmiento la gobernación de San Juan. A poco de asumir dictó una Ley Orgánica de Educación Pública que imponía la enseñanza primaria obligatoria y creaba escuelas para los diferentes niveles de educación, entre ellas una con capacidad para mil alumnos, el Colegio Preparatorio, más tarde llamado Colegio Nacional de San Juan, y la Escuela de Señoritas, destinada a la formación de maestras

En sólo dos años Sarmiento cambió la fisonomía de su provincia. Abrió caminos, ensanchó calles, construyó nuevos edificios públicos, hospitales, fomentó la agricultura y apoyó la fundación de empresas mineras. Y como para no aburrirse, volvió a editar el diario El Zonda.

En 1863 se produjo en la zona el levantamiento del Chacho Peñaloza y Sarmiento decretó el estado de sitio y como coronel que era, asumió personalmente la guerra contra el caudillo riojano hasta derrotarlo. El ministro del interior de Mitre, Guillermo Rawson, criticó la actitud de Sarmiento de decretar el estado de sitio por considerar que era una decisión exclusiva del poder ejecutivo nacional. Sarmiento, según su estilo, renunció. Corría el año 1864.

A pedido del presidente Mitre, en 1864 viajó a los EE.UU. como ministro plenipotenciario de la Argentina. De paso por Perú, donde se hallaba reunido el Congreso Americano, condenó el ataque español contra Perú, a pesar de las advertencias de Mitre para que no lo hiciera.

Sarmiento llegó a Nueva York en mayo de 1865. Acababa de asumir la presidencia Andrew Johnson en reemplazo de Abraham Lincoln, asesinado por un fanático racista. Sarmiento quedó muy impresionado y escribió Vida de Lincoln. Frecuentó los círculos académicos norteamericanos y fue distinguido con los doctorados "Honoris Causa" de las Universidades de Michigan y Brown.

Mientras Sarmiento seguía en los Estados Unidos, se aproximaban las elecciones y un grupo de políticos los postuló para la candidatura presidencial. Los comicios se realizaron en abril de 1868 y el 16 de agosto, mientras estaba de viaje hacia Buenos Aires, el Congreso lo consagró presidente de los argentinos. Asumió el 12 de octubre de ese año.

Cuando Sarmiento asumió la presidencia todavía se combatía en el Paraguay. La guerra iba a llevarse la vida de su querido hijo Dominguito. Sarmiento ya no volvería a ser el mismo. Un profundo dolor lo acompañaría hasta su muerte.

Durante su presidencia siguió impulsando la educación fundando en todo el país unas 800 escuelas y los institutos militares: Liceo Naval y Colegio Militar.

Sarmiento había aprendido en los EE.UU. la importancia de las comunicaciones en un país extenso como el nuestro. Durante su gobierno se tendieron 5.000 kilómetros de cables telegráficos y en 1874, poco antes de dejar la presidencia pudo inaugurar la primera línea telegráfica con Europa. Modernizó el correo y se preocupó particularmente por la extensión de las líneas férreas. Pensaba que, como en los EE.UU., el tren debía ser el principal impulsor del mercado interno, uniendo a las distintas regiones entre sí y fomentando el comercio nacional. Pero éstos no eran los planes de las compañías británicas inglesas, cuyo único interés era traer los productos del interior al puerto de Buenos Aires para poder exportarlos a Londres. En lugar de un modelo ferroviario en forma de telaraña, o sea interconectado, se construyó uno en forma de abanico, sin conexiones entre las regiones y dirigido al puerto. Este es un claro ejemplo de las limitaciones que tenían los gobernantes argentinos frente a las imposiciones del capital inglés. La red ferroviaria paso de 573 kilómetros a 1331 al final de su presidencia.

En 1869 se concretó el primer censo nacional. Los argentinos eran por entonces 1.836.490, de los cuales el 31% habitaba en la provincia de Buenos Aires y el 71% era analfabeto. Según el censo, el 5% eran indígenas y el 8% europeos. El 75% de las familias vivía en la pobreza, en ranchos de barro y paja. Los profesionales sólo representaban el 1% de la población. La población era escasa, estaba mal educada y, como la riqueza, estaba mal distribuida. Sarmiento fomentó la llegada al país de inmigrantes ingleses y de la Europa del Norte y desalentó la de los de la Europa del Sur. Pensaba que la llegada de sajones fomentaría en el país el desarrollo industrial y la cultura. En realidad los sajones preferían emigrar hacia los EE.UU. donde había puestos de trabajo en las industrias. La argentina de entonces era un país rural que sólo podía convocar, lógicamente a campesinos sin tierras. Y, para tristeza de Sarmiento, la mayoría de los inmigrantes, muchos de nuestros abuelos, serán campesinos italianos, españoles, rusos y franceses.

Entre las múltiples obras de Sarmiento hay que mencionar la organización de la contaduría nacional y el Boletín Oficial que permitieron a la población en general, conocer las cuentas oficiales y los actos de gobierno. Creó el primer servicio de tranvías a caballo, diseñó los Jardines Zoológico y Botánico. Al terminar su presidencia 100.000 niños cursaban la escuela primaria.

Al finalizar su mandato apoyo la candidatura del tucumano Nicolás Avellaneda.

El 22 de agosto de 1873 Sarmiento sufrió un atentado mientras se dirigía hacía la casa de Vélez Sarsfield. Cuando transitaba por la actual esquina de Corrientes y Maipú, una explosión sacudió al coche en el que viajaba. El sanjuanino no lo escuchó porque ya padecía una profunda sordera. Los autores fueron dos anarquistas italianos, los hermanos Francisco y Pedro Guerri que confesaron haber sido contratados por hombres de López Jordán. El atentado falló porque a Francisco Guerri se le reventó el trabuco en la mano. Sarmiento salió ileso del atentado y se enteró porque se lo contaron después.

Al finalizar su mandato en 1874, Sarmiento se retiró de la presidencia pero no de la política. En 1875 asumió el cargo de Director General de Escuelas de la Provincia de Buenos Aires y continuó ejerciendo el periodismo desde La Tribuna. Poco después fue electo senador por San Juan.

En esa época vivía con su hermana, su hija y sus nietos en la calle Cuyo, actual Sarmiento 1251.

En 1879 asumió como ministro del Interior de Avellaneda, pero por diferencias políticas con el gobernador de Buenos Aires, Carlos Tejedor, renunció al mes de haber asumido.

Durante la presidencia de Roca ejerció el cargo de Superintendente General de Escuelas del Consejo Nacional de Educación. En la época en que Sarmiento fomentaba la educación popular, el índice de analfabetos era altísimo. En el campo había muy pocas escuelas porque la mayoría de los estancieros no tenían ningún interés en que los peones y sus hijos dejaran de ser ignorantes. Cuanto menos educación tuvieran más fácil sería explotarlos.

Pero Sarmiento trataba de hacerles entender que una educación dirigida según las ideas y los valores de los sectores dominantes, lejos de poner en peligro sus intereses, los reproducía y confirmaba. "Para tener paz en la República Argentina, para que los montoneros no se levanten, para que no haya vagos, es necesario educar al pueblo en la verdadera democracia, enseñarles a todos lo mismo, para que todos sean iguales... para eso necesitamos hacer de toda la república una escuela."

De todas formas le costó muchísimo convencer a los poderosos de que les convenía la educación popular y recién en 1882, logró la sanción de su viejo proyecto de ley de educación gratuita, laica y obligatoria, que llevará el número 1420.

Una de sus últimas actuaciones públicas data de 1885. El presidente Roca prohibió a los militares emitir opiniones políticas. Sarmiento, que no podía estar sin expresar su pensamiento, decidió pedir la baja del ejército, y opinar libremente a través de las páginas de su diario El Censor.

En el invierno de 1888 se trasladó al clima cálido del Paraguay junto a Aurelia Vélez, la hija de Dalmacio Vélez Sarsfiled, autor del Código Civil. Aurelia fue la compañera de Sarmiento durante los últimos años de su vida. Murió el 11 de septiembre de ese año, en Paraguay, como su hijo Dominguito.

Pocos años antes había dejado escrito una especie de testamento político: "Nacido en la pobreza, criado en la lucha por la existencia, más que mía de mi patria, endurecido a todas las fatigas, acometiendo todo lo que creí bueno, y coronada la perseverancia con el éxito, he recorrido todo lo que hay de civilizado en la tierra y toda la escala de los honores humanos, en la modesta proporción de mi país y de mi tiempo; he sido favorecido con la estimación de muchos de los grandes hombres de la Tierra; he escrito algo bueno entre mucho indiferente; y sin fortuna que nunca codicié, porque ere bagaje pesado para la incesante pugna, espero una buena muerte corporal, pues la que me vendrá en política es la que yo esperé y no deseé mejor que dejar por herencia millones en mejores condiciones intelectuales, tranquilizado nuestro país, aseguradas las instituciones y surcado de vías férreas el territorio, como cubierto de vapores los ríos, para que todos participen del festín de la vida, de que yo gocé sólo a hurtadillas".